Cerca nel blog

domenica 28 febbraio 2010

I sogni muoiono all'alba ovvero ... l'alba dei disillusi

Questo blog nasce dalle molte disillusioni che hanno contraddistinto la vita del suo ideatore e di tantissimi altri, figli di una stessa società che, nascondendosi dietro l'ipocrisia e dimenticandosi le promesse fatte, ha reso possibile il conseguimento del traguardo solamente a pochi eletti già previamente individuati.

Calpestando quelli che erano i sani principi della meritocrazia, della moralità e della capacità, sostituiti dal clientelismo, nepotismo, immoralità e furbizia spicciola, così evidenti che ormai paiono essere esempi da seguire, di fatto si è creata una società di figli e figliastri.

Dove i primi, non certo sempre per oggettivi meriti propri, ma per discendenza o per avere preferito scorciatoie, hanno goduto, continuano e continueranno a godere dei privilegi conseguiti in quanto appartenenti ad un casta o perchè "più furbi" mentre i secondi, figli di un dio minore, continueranno a muoversi ai margini di quella realtà che, negli originari insegnamenti dei genitori e dei precettori, era stata loro promessa a condizione che fossero sempre stati rispettosi di quelle regole basilari che si pongono a fondamento della società.

E’ difficile pensare che siano ormai trascorsi trenta – trentacinque anni da quel 1° ottobre quando il Preside della scuola media (allora si chiamava così), preceduto da un impercettibile toc toc sulla porta di ingresso dell’aula, si presentò agli studenti della I ^ G.

Era questa una data particolarmente significativa per gli alunni di ogni ordine e grado che “tristemente” coincideva con la fine della vacanze estive; era il primo giorno di scuola, il giorno di S.Remigio, che annoverava schiere di giovani “consacrati”.

Basti pensare che i bambini delle elementari che per la prima volta si affacciavano a questo nuovo mondo – fatto di aste, lavagne, cimose, carte geografiche dell’Italia grandi come l’intera parete sulle quali erano appese, suoni di campanella, intervalli, merende, cannette con il pennino, calamai pieni di inchiostro nero posti all’interno di una apposita apertura circolare ricavata sul lato destro del banco – erano soprannominati “remigini”.

Il Preside della Scuola Media, persona di tutto punto, austera, ex colonnello dell’aeronautica, fortemente investito nel suo ruolo se non di capo dell’istituto quantomeno in quello che oggi si direbbe di “guru”, si rivelava nelle sue vesti di dispensatore di perle di saggezza e di custode di quelle che potremmo oggi definire, utilizzando un’espressione yankee, “the keys to success”.

In fondo in fondo questo era il succo, il messaggio ultimo ma immanente dell’intera storiella che il Preside si accingeva a raccontare e che chissà quante altre volte a chissà quanti altre generazioni di giovani studenti aveva già raccontato e che avrebbe sicuramente continuato a raccontare, a declamare con la stessa foga e convinzione il 1° di ottobre di ogni anno a venire.

Alto, magro, stempiato, i cappelli radi imbrillantinati tirati all’indietro, avvolto nel suo abbondante vestito grigio scuro dal quale risaltava una modesta cravatta a fantasia sullo sfondo di una camicia bianco brillante, il Preside, avvicinatosi lentamente alla cattedra, prendeva posto sulla sedia che la professoressa, svolti i convenevoli di rito ("Buon giorno sig. Preside… su, ragazzi alzatevi e salutate il Sig. Preside…"), dopo essersi prontamente alzata, gli aveva lasciato libera andandosi a posizionare in piedi alla sua destra.

Sotto il crocifisso e la foto dell’allora Presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, il Preside, ricambiati i convenevoli, iniziava così a raccontare con ferrea convinzione, con l’entusiasmo di chi gli si è improvvisamente accesa la lampadina e intende condividere con altri tale strabiliante scoperta, la storiella della “retta via” o meglio, con un linguaggio meno preistorico ma più immediato, “come diventare famosi in quattro e quattrotto”.

L’esempio da seguire e di forte impatto era, non a caso, quello del Giro d’Italia. Una manifestazione sportiva che come oggi (o forse più) all’epoca era molto seguita e che annoverava nel sue schiere tanti campioni eletti ad idoli da buona parte dei giovani. Basti pensare che le biglie di plastica trasparente con le quali si giocava nelle calde domeniche d’estate in spiaggia, al mare, su circuiti improvvisati sulla sabbia bollente grazie alle terga di chi si prestava ad essere trascinato per i piedi da altri compagni di giochi seguendo i suggerimenti distratti del babbo seduto sullo sdraio sotto l’ombrellone – "lì fate una curva, là un dosso" -, riportavano in piccolo, al loro interno, le foto a colori dei vari corridori.

Migliore, più attuale e comprensibile esempio non poteva dunque esistere, essere mostrato ed esaltato per meglio illustrare ad un auditorium di venti alunni con i calzoni corti il nocciolo del ragionamento.

Schiarendosi la voce, dopo un’iniziale esaltazione dell’importanza della scuola, dello studio e della disciplina nella formazione di ogni giovane, il Presiede ricordava come la vita scolastica fosse in realtà una gara ciclistica, un “Giro d’Italia”.

"Tanti sono coloro che vi partecipano ma … ", osservava il Preside, "… ma solamente uno indosserà “la maglia rosa”, solamente alcuni arriveranno secondi, terzi, quarti, altri, forse raggiungeranno il traguardo in ordine sparso, altri ancora arriveranno ultimi o addirittura non arriveranno mai".

Anche se non proseguiva sulle sorti (tristi?) che avrebbero accomunato i corridori meno volonterosi, non avveduti e comunque dotati di una insufficiente preparazione, evidente era il destino che li avrebbe attesi: l’essere relegati nel limbo degli sfigati, dei nullatenenti, dei devianti, deglihomeless, ai margini di una società fatta di boni vires, di uomini laboriosi, virtuosi che grazie alla loro caparbietà potevano finalmente godersi i meritati risultati di anni di studi con votazioni brillanti e di impegno nel rigido rispetto di una vita morigerata e retta, al riparo da ogni avversità.

In una logica matematica dove 1+1 è uguale a 2 il motivo di ciò, il risultato finale, il 2 della premessa, era molto semplice ed intelligibile anche ai meno acuti o ai più disattenti.

Quelli che pedalavano svogliatamente, o coloro che, pur pedalando con convinzione, non raggiungevano ugualmente il traguardo era perché non si erano sufficientemente allenati o comunque non si erano dedicati all’allenamento con quello sforzo e dedizione richiesti e necessari al conseguimento del risultato finale. L’insuccesso ricadeva sulle loro spalle. Solo loro erano i consapevoli responsabili dell’insuccesso.

Non esistevano fortuna o spinte, tutto dipendeva dalle capacità agonistiche dei concorrenti che proprio grazie alla loro tenacia ed ai loro sforzi, accompagnate da uno spirito di abnegazione, avrebbero potuto così beneficiare della soddisfazione di avere raggiunto il traguardo.

Occorreva dunque allenarsi quotidianamente, dedicarsi corpore et animo all’attività agonistica, sottraendo tempo alle attività ludiche e piacevoli, perché questo lo imponevano le dure regole della gara. Inottemperanza che comportava come sanzione e pena l’essere relegati nella schiera dei perdenti.

Quella raccontata dal Preside era certamente una “storiella” con il suo fascino, intrisa di profondi significati, che se ancora oggi, nel terzo millennio, calamita l’attenzione dei benpensanti, dei fiduciosi, degli ottimisti e degli ingenui, illudendoli e facendoli ben sperare, non poteva non ingenerare comprensivi risvolti motivazionali nella mente di quei giovani della 1^ G, e degli altri giovani che di lì a poco, quella stessa mattina, avrebbero ricevuto la sua visita.

Il parallelismo tra le fatiche dell’allenamento sportivo e quello scolastico era evidente. Un tratto breve, anzi brevissimo, distanziava tra loro le due realtà apparentemente diverse, distanti, e invece molto vicine. Un tratto che il Preside colmava con un balzo agilissimo per calarsi, con fare deciso, a tirare le conclusioni di quella storia appena narrata che altro non rappresentava che la premessa di un sillogismo il cui esito finale di lì a poco sarebbe stato svelato agli innocenti ascoltatori, destinatari del messaggio.

La professoressa con la boccuccia a cuore e con lo stupore dipinto sul viso, come di chi viene per la prima volta a conoscenza del Verbo, ascoltava la parole pacate del Preside. Il silenzio regnava nella classe e tutti, attenti, aspettavamo la conclusione di quella storiella ben intuendo che al di là delle apparenze e sotto le mentite spoglie di una cronaca sportiva, nelle sue pieghe si annidava un non ben identificato sermone che ben presto si sarebbe rivelato nei suoi contorni.

"", esordì il Preside dopo una breve pausa di riflessione, "la scuola è come una gara ciclistica dove ognuno di voi è chiamato a dare il meglio di sé" … altra pausa … <> … altra pausa … "solo … solo così riuscirete a raggiungere il traguardo e, se sarete bravi, ad indossare la “magliarosa”" … nuova pausa …"perché, non lo dimenticate, il vostro futuro lo costruite oggi sui banchi di scuola".

E con quest’ ultima affermazione, seguita da un "buon lavoro" rivolto agli studenti e alla professoressa, il Preside si alzava dalla sedia e se ne andava.

Il seme era ormai stato gettato, il messaggio trasmesso, l’impegno degli insegnanti e quello degli alunni di “buona volontà” avrebbero fatto il resto.

Si trattava solo di concentrarsi sul presente con un occhio al domani, seguire pedissequamente il dettato del Preside ed attendere il momento esatto per incominciare ad intravedere all’orizzonte la linea del traguardo (ARRIVO) che sarebbe stata attraversata nella volata finale.

Il “grillo parlante” era nel giusto e ciò che da lui proveniva non poteva che essere giusto. Il “grillo parlante” era il “Verbo”, il “Verbo”era presso il “grillo parlante”, il “Verbo” era il “grillo parlante”. Nessun timore, nessun rimpianto nel seguire le sue direttive. Quando men che si dica, ecco che, improvvisamente, come “Minerva dalla testa di Giove”, gli sforzi, le rinunce sarebbero state giustamente ricompensati.

Il presente era una strada, un percorso … un percorso fatto di rinunce, campanelle che suonavano l’inizio delle lezioni, di studi, di libri, di quaderni, di compiti, di noiose ore di latino, di rimbrotti dei professori, di pagelle, dicompagni leccacelo, di regole. Soprattutto di regole. Un percorso sul quale quegli studenti della 1^ G sospiravano, ansiosi di vedere spuntare ad ogni curva il traguardo. Poco importa se poi invece del traguardo c’era un’altra salita. Sicuramente, lo avrebbero trovato subito dopo o, al limite, dopo la curva successiva. L’importante era non demordere e continuare a pedalare con la stessa iniziale foga e decisione. Prima o poi si sarebbe finalmente intravisto in lontananza l’arrivo. Ed ecco che finalmente il futuro sarebbe diventato una realtà palpabile … anche se un po’ spigolosa …

Una realtà desiderata, meritata e soddisfacente, proprio perchè frutto di grandi sacrifici. Come una gara ciclistica, dove giunti al traguardo ci si volge indietro e con la mente si rivivono i chilometri percorsi, le salite, i tornanti, le sfide con gli altri corridori mentre sul corpo si sente la fatica crescente. Una realtà che avrebbe rappresentato il coronamento dei sogni di ognuno di quegli alunni diventati finalmente uomini.

Era difficile non convenire con le illuminanti e rassicuranti parole del Preside, così accorate e profonde. Lui voleva, era il bene dei suoi alunni, e la realizzazione delle loro legittime aspettative e desideri di affermazione sociale rappresentavano la sua massima aspirazione, del resto connaturata alla nobile funzione educatrice cui era chiamato. Il non seguire i suoi consigli sarebbe equivalso a gettare al vento le opportunità della vita, il proprio futuro. Ogni riluttanza doveva quindi essere prontamente abbandonata.

Senza considerare il rischio dell’insorgere di quello strano sentimento che accomuna buona parte degli uomini e che, nella sua previsione, li porta a fare cose che diversamente non avrebbe mai pensato di fare: il senso di colpa.

Disattendere il Preside, seguire scorciatoie, non ammazzarsi dalla fatica, avrebbe gettato il “deviante”, il “diverso”, nella fossa dell’autocommiserazione per non essere stato osservante dei suoi precetti. Lo avrebbe posto ai margini della società.

Immanente era la distinzione tra il bene e il male, tra la retta via e quella della perdizione.

Concetti inculcati nella mente di giovani imperbi, plasmata verosimilmente con doppie finalità che parevano allora inesistenti e che solo oggi si incominciavano a delineare nei loro contorni e nelle più nascostesfaccettature.

Quelle belle parole così altisonanti, rassicuranti e chiarificatrici non erano forse il frutto di una menzogna sottostante dolosamente o quantomeno colposamente sottaciuta dal Preside?

La vita, quella maledetta gara ciclistica, si sarebbe effettivamente svolta nei limiti del percorso delineato dal Preside, con in suoi alti e bassi ma pur sempre contraddistinta da un risultato finale indubbio una volta che fossero state rispettate le premesse?

O forse lo stesso Preside era l’attore inconsapevole di una rappresentazione teatrale il cui copione era stato scritto da altri? Una sorta di nuncius inconsapevole che si limitava a proferire parole che gli erano state dettate da un puparo?

Il Nostro comprensibilmente non poteva ancora saperlo, data la sua giovane età, né tantomeno poteva immaginare come effettivamente si sarebbe svolta la sua vita, tra speranze, illusioni, cause fortuite, forse maggiori, trabocchetti, tunnel, luci, ombre, raccomandazioni, amici e falsi amici, false verità, verità scomode …

Certo è che la ricetta dettata dal Preside non poteva tradire, rappresentava un buon inizio e, una volta utilizzati gli ingredienti nella misura indicata, ecco pronta la torta. Semplice, no?

Indubbiamente, peccato che molto spesso la realtà non coincide con la teoria.

Il Nostro non immaginava certo che quella torta così sospirata ed attesa, per la cui realizzazione tante energie aveva profuso, anziché presentarsi, come auspicabile, vellutata e di gusto sopraffino, un giorno, assaggiato il primo boccone, si sarebbe rivelata disgustosa ed immangiabile e dopo quarantanni si sarebbe finalmente sentito come il principe Miskin, un idiota nel senso dostoevskjano più nobile.

Non poteva allora prevedere che, solo in prossimità del traguardo, avrebbe compreso di aver trascorso buona parte della sua vita seduto sopra un sellino di una fottuta bicicletta intento a pedalare incessantemente, speranzoso, se non addirittura convinto, di farcela.

In cima allo spartiacque, al discrimen tra un inferno e paradiso senza però comprendere quale fosse effettivamente il vero inferno e quale il vero paradiso e se il diavolo stesse dove gli era sempre stato rappresentato o non da tutt’altra parte, e magari albergasse proprio dentro la coscienza (sporca) di coloro che nel corso della sua esistenza si erano e si sarebbero appalesati quali detentori della saggezza e moralità, dispensando belle parole e suggerimenti, come poi avrebbe più avanti scoperto. Ma questo, il Nostro, non lo sapeva.

Era concentrato nell’ evitare di rotolare giù dalla parte sbagliata del monte.

Ogni sforzo era rivolto a mantenere ferme le braccia sul manubrio ed a pedalare, guardando fisso avanti, speranzoso, al termine di ogni salita o di ogni curva di vedere spuntare il tanto atteso traguardo.

Per fortuna c’era quell’innato (o acquisito?) senso di colpa che gli dava una mano, un concreto aiuto a contrastare le naturali pulsioni adolescenziali che lo avrebbero inevitabilmente distolto dall’obiettivo.

Non era forse il senso colpa, che porta gli esseri umani ad autodistruggersi nella convinzione di non essersi comportati nel modo corretto o, comunque, nel rispetto delle regole, a rappresentare un valido baluardo contro le tentazioni?

Il timore di ciò, di cadere in tale stato psicologico e nelle immancabili situazioni autocommiseranti che ne sarebbero derivate, aveva sempre costituito per il Nostro un rischio da evitare ad ogni costo, pur di rinunciare ai piccoli ed innocenti svaghi di un adolescente.

La partita a pallone, le prime uscite con gli amici, erano piaceri che andavano, al limite, assaporati cum grano salis perché prima il dovere e poi (chissà) il piacere.

Vade retro ogni perdizione, ogni vizio che avrebbe avviluppato nelle sue spire chi avesse desistito dal raggiungere l’obiettivo, inducendolo e cadere nelle braccia delle sirene attratto dal loro canto mortale.

Immensa era, quindi, la gratitudine che doveva essere rivolta al Preside che, proprio con le sue linee guida, semplici ed immediate, illustrava al Nostro quella retta via che era la panacea per ogni male, tenendolo lontano dalle varie “mele” che nel corso della sua carriera scolastica, e poi di vita, gli si sarebbero palesate e che il Nostro, molto accortamente, non avrebbe colto ovviando così allo struggimento che ne sarebbe inevitabilmente seguito.

Il futuro …

E’ bello crogiolarsi nella convinzione che i risultati, gli obiettivi che ci prefiggiamo siano la conseguenza di una nostra scelta preventiva, più o meno istintiva, più o meno oculata e ponderata, nella quale confluiscono i nostri sforzi, le nostre attività, le nostre rinunce, le nostre aspirazioni.

E’ bello pensare questo …

E’ bello illudersi nella convinzione che notti insonni passate sui libri, in prossimità dell’esame, bevendo caffè per rimanere svegli e fumando come ciminiere, possano un domani portarci al conseguimento di quel risultato che va al di là del semplice diploma o della laurea, consentendoci a pieno titolo l’entrée nella società e, perché no, diciamocelo una volta per tutte senza tante ipocrisie, una vita migliore ed economicamente agiata, sentendoci così finalmente ripagati di tanti sacrifici.

C’è in fondo qualcosa di male nel desiderare il denaro quale premio per essere stati bravi e diligenti nella nostro esistenza lavorativa? Nel desiderare il denaro quale frutto della propria onesta attività lavorativa per poter acquistare una casa, per formare una famiglia, per crescere i propri figli?

Raggiungimento della ricchezza certo vista come espressione di una libera scelta e poggiata sul libero arbitrio del singolo. Quella facoltà di scelta che consente a ciascun uomo di seguire un determinato cammino in previsione di un preciso obiettivo. E d’altronde è questo che ci è stato insegnato sin da piccoli e che noi stessi continuiamo ad insegnare ai nostri figli.

L’idea di un rapporto causa-effetto che spiega ogni accadimento umano ci solleva, ci tranquillizza, dando delle risposte a quelle domande che, anche inconsciamente, tutti noi quotidianamente ci poniamo. Siamo noi ad avere le chiavi della nostra sorte, del nostro successo. Siamo noi a decidere del nostro futuro. Maggiore è il nostro impegno, più è la nostra fattività e operosità e più consistenti saranno i risultati che ne conseguiranno.

Forse non era questo il messaggio del Preside, espressione di una cultura imperante dell’epoca, che non conosceva zone grigie ma solo il bianco e il nero? Forse non erano queste le premesse sulle quali è stata fondata l’educazione di tanti giovani imponendogli scelte di vita che, proprio perché minorenni, non erano in grado di discernere? Forse non era questo l’insegnamento?

L’ombra del Preside continua ad insistere e ad allungarsi su ognuno di noi. Ancora oggi essa svolge i suoi influssi che vengono sfortunatamente percepiti nei loro sempre più delineati contorni.

Sei sfigato? La colpa è la tua. Fatichi ad arrivare a fine mese perché i soldi non sono sufficienti? La colpa è la tua, dovevi lavorare di più. Ti ammali di cancro? La colpa è la tua, dovevi fumare di meno. Ti rapinano e quando ti va bene ti massacrano di botte mentre te ne stai in casa comodamente seduto sul divano davanti alla tv? La colpa è la tua perché non hai installato un adeguato sistema di allarme o non hai prontamente detto ai malviventi dov’è la cassaforte o perché non hai lasciato mille euri a portata di mano da consegnargli. Sei caduto per la scale? La colpa è la tua, dovevi stare più attento.

O forse è meglio porsi una domanda diversa: siamo propri certi che quel traguardo tanto prospettato esista o si tratta, come è più probabile, di una gran cazzata?

O forse non si tratta di un traguardo creato ad hoc per autoconvincere chi lo raggiunge di averlo conseguito per suoi meriti personali, di fronte alla schiera dei contendenti, quando in realtà lui stesso lo ha superato grazie alla sua furberia o per discendenza?

Alea iacta est ... il dado è tratto ... ora tocca a Voi, cari lettori, incrementare questo blog, tenerlo vivo con i Vostri commenti, le Vostre osservazioni, le Vostre esperienze di vita, alimentarlo, dare voce alle Vostre amarezze, perplessità e disillusioni, senza riferimenti specifici a Tizio o a Caio, a questo o a quello schieramento politico, ma nell'assoluta oggettività, sempre in modo educato e pacato e soprattutto senza mai dimenticare che ... il torto urla ... la ragione sussurra...a presto ...

4 commenti:

  1. Concordo pienamente con ciò che affermi...è vero che le opportunità che la vita offre, a parità di merito, non sono uguali per tutti, ma è vero anche che non c'è niente di più bello e gratificante della consapevolezza che ogni gradino da noi percorso, a fatica, è frutto esclusivamente della nostra capacità. E questo non mi sembra poco! Marina Onofri

    RispondiElimina
  2. Concordo con quello che dici. Sicuramente la gratificazione per avere raggiunto traguardi significativi con le proprie forze è importante. Ma ritengo che non sia da sottovalutare come quei risultati sarebbero stati raggiunti con uno sforzo minore se effettivamente tutti avessero rispettato le regole del gioco. E comunque, certamente, posizioni e ruoli decisivi sarebbero stati, in molti casi, ricoperti da soggetti all'altezza e meritevoli di ricoprirli ...

    RispondiElimina
  3. Io credo che non conti soltanto raggiungere un traguardo significativo o una posizione di rilievo; la prova più dura è quella di dimostrare di essere effettivamente in grado di gestire il ruolo assegnato...e, come spesso il tempo ci ha dimostrato, chi non è competente, prima o poi, farà inevitabilmente emergere la propria inadeguatezza.
    Basti pensare a nomine politiche che hano deluso, sotto vari punti di vista, persino le aspettative dei più convinti elettori.
    Io, però, non voglio smettere di credere che prima o poi il valore ed i meriti personali saranno riconosciuti e premiati...forse da una forza Superiore?!?
    Anna

    RispondiElimina
  4. Anch'io penso che alla fine il giusto prevarrà ... anche se all'orizzonte avverto sempre il "deserto dei tartari" .... pessimismo? ... o forse avere coscienza del fatto che les jeux sont faits?... mah... vedremo... cmq grazie per avere contribuito con il Tuo commento

    RispondiElimina